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Dobbiamo diffondere nell'elettore medio la consapevolezza di quali siano i modelli economici alternativi in gioco, nonostante la "revisione storiografica" per cui debito, inflazione, svalutazione = pericolo.
Spingere l'opinione pubblica a riconsiderare che ci sono diversi e divergenti modelli di risoluzione del conflitto sociale; che non ci sono baratri da cui essere salvati, ma interessi contrapposti, tra lavoro e rendita.
Che non ci sono tecnici che riparano conti pubblici, ma sempre e solo politici che decidono dove deve pesare l'intervento dello stato e quanto le proprietà e le rendite devono essere messe al riparo da tale intervento.

[dalla peerreview]

 

Oggi, 12 febbraio 2021, è il quarantesimo anniversario del divorzio tra il [Ministero del] Tesoro e la Banca d’Italia.

Fu un episodio, decisivo, sul quale sono stati scritte parole definitive, quindi non ho di certo molto da aggiungere. In estrema sintesi, lo stato italiano rinunciò a stabilire il tasso di interesse a cui avrebbe venduto il suo debito, avendo la copertura della Banca d’Italia per tutto l’invenduto, lasciando così ai mercati finanziari il potere di fare il prezzo. Questo comporta che da allora, quantomeno al livello ideale (nella pratica bisogna arrivare all’euro, cioè la totale assenza di controllo da parte dello stato sulla moneta) lo stato si sottomette alle condizioni dei mercati finanziari per quanto riguarda le sue manovre economiche. Per qualsiasi lato la si voglia vedere, si tratta di un irrigidimento del sistema politico ed economico, privando di fatto lo stato di alcune possibilità di azione. Sostanzialmente, fu fatto considerando che i politici “non avrebbero potuto usare bene questo strumento”: la mentalità è quella dell’elogio della politica che si lega le mani (come dal titolo di un articolo di Alesina e Giavazzi), riducendo il suo spazio d’azione, perché tanto sarebbe stato utilizzato “per mancette elettorali” – come usano dire gli aristocratici che disprezzano una politica che compie la volontà del popolo.

Di fatto, il risultato di questa scelta fu quello di aprire un enorme mercato proficuo per gli investimenti finanziari, regalando loro – direttamente o indirettamente – grandi guadagni. In realtà, si può considerare questa come la prima grande privatizzazione: cessione ai privati di un’attività prima a controllo statale (l’erogazione del credito pubblico) con i relativi guadagni.

Per celebrare questa infausta data, però, vorrei limitarmi a sottolineare le aporie o mezze bugie presenti in un articolo che vorrebbe sminuire (o negare?) l’importanza e le conseguenze di questo evento storico. Non entro nei dettagli tecnico-economici perché, come detto, è già stato fatto meglio di quanto potrei fare io (presenterò una breve bibliografia in conclusione); mi limito a sottolineare alcune evidenti sbavature del ragionamento. Ovviamente la fonte è CPI – osservatorio Conti Pubblici Italiani, “la fabbrica delle fake-news”, e l’autore è un economista bocconiano, dalla grande carriera in Banca d’Italia nonché in Confindustria e quindi deputato PD nella scorsa legislatura.

Questo il testo dell’articolo: Il divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro: teorie sovraniste e realtà | Università Cattolica del Sacro Cuore (unicatt.it)

Commentiamo qualche passaggio un po’ superficiale:

 

Verso la fine degli anni settanta nella politica e nella società italiana maturò la convinzione che l’inflazione fosse da debellare in quanto nociva per la crescita economica e per la coesione sociale. Questa scelta si tradusse, tra l’altro, nell’adesione, nel 1979, dunque ben prima del divorzio, al Sistema Monetario Europeo

 

Sicuramente fu quello il periodo in cui entrò nella mentalità comune il terrore dell’inflazione; però vale la pena ricordare che l’adesione allo SME non fu una decisione pacifica e unanime: presa dal neonato governo Andreotti IV, successiva all’assassinio Moro, con forte opposizione della sinistra in parlamento (tra cui, è interessante ricordarlo, il PCI di Napolitano).

i tassi d’interesse reali erano scesi molto nel corso degli anni settanta, fino a diventare negativi nella maggior parte dei paesi

questo è uno dei punti decisivi: i tassi di interesse reali sono la differenza tra ciò che il creditore riceve nominalmente e la “perdita di potere d’acquisto” causata dell’inflazione. Se tu presti 100 e dopo un anno ti vengono restituiti 105 (interesse 5%), ma l’inflazione è al 6%, tu subisci una perdita dell’1%. Attenzione: se non avessi prestato (investito) quei soldi, la tua perdita sarebbe stata comunque maggiore! Ordunque, è giusto che gli stati si finanzino a un tasso di interesse reale negativo? Semplicemente sì. Investire in titoli di Stato è qualcosa di estremamente facile e sicuro (i fallimenti di stati sovrani, con una propria moneta, sono rarissimi); chi pensa di saper guadagnare sui mercati finanziari molto bene, è giusto che si prenda i suoi rischi. I titoli di Stato dovrebbero essere un deposito dei risparmi in cui non ci si guadagna nulla (al netto dell’inflazione) o ci si perde poco. Difatti, guarda caso, “i tassi di interesse reali rimasero elevati” negli anni successivi: sicuramente ci saranno stati altri fattori, ma se, a livello globale, tutti si mettono nelle condizioni di non avere alternative di finanziamento rispetto ai mercati, questi faranno pagare cara la loro posizione di potere, logicamente.

In Italia i tassi di interesse nominali (a breve) cercano di tenere il passo con l’inflazione, ma fino al 1981 i tassi reali rimangono attorno allo zero o negativi, mentre sono già positivi e notevolmente elevati in Germania (+6,0 per cento), Regno Unito (+3,9 per cento), Giappone (+2,7 per cento) e Stati Uniti (+0,8 per cento). […]

In termini di tassi reali, l’Italia recupererà solo nel 1982, dopo il divorzio. […]

[i sovranisti] finiscono inoltre per attribuire un enorme significato a un evento, il divorzio, che ebbe soprattutto un significato simbolico.

La contraddizione è evidente, quindi proseguiamo.

Nel febbraio del 1981 non successe quasi nulla. Non ci fu una legge e nemmeno un decreto ministeriale, ma semplicemente uno scambio di lettere fra il Ministro del Tesoro […]

In realtà, come spiegò la stessa Banca d’Italia nel 2011, nelle parole dell’allora governatore Mario Draghi: “La riforma non è completa…

Cioè: non ci fu una legge, ma solo una lettera (appunto: coerenza di forma e contenuti, se l’obiettivo è togliere potere d’azione alla politica), che non fu nulla, se non l’inizio di una riforma su cui si continua a discutere e a riflettere. Una cosa da nulla, evidentemente…

L’inflazione era un male da combattere e uno degli strumenti per farlo, non certo l’unico, era quello di una stretta monetaria. Come si è detto, le altre scelte cruciali in questo senso furono, nel 1979, l’adesione al Sistema Monetario Europeo e successivamente il lodo Scotti e il decreto di San Valentino.

L’inflazione era una male da combattere… ed è diventata un’ossessione anche nella mentalità dell’uomo comune, nonostante questa idea non sia del tutto sostenibile, come spiegherò alla fine. Furono fatte anche altre scelte cruciali, ma quindi quella del divorzio fu una scelta cruciale o è solo un’illusione dei “sovranisti”?

…operare una disinflazione meno cruenta in termini di occupazione e di produzione…

Ecco che qui, finalmente, si tenta uno slalom sul punto centrale: se nell’inflazione c’è una forte componente di domanda (quindi le persone hanno un forte potere d’acquisto, quindi stanno bene, quindi l’inflazione è un segnale anche positivo), la vera modalità per abbassarla è ridurre la ricchezza redistribuita, cioè, in brutale sintesi, aumentare la disoccupazione e abbassare i salari.

La stessa decisione, che oggi alcuni mettono in discussione, di dare un unico obiettivo alla Bce, la stabilità dei prezzi, si spiega in termini teorici con la finalità di minimizzare i costi del controllo dell’inflazione in termini di prodotto e occupazione.

Questa breve super-cazzola mistifica la realtà: la BCE ha come unico obiettivo la stabilità dei prezzi e nei fatti e nei trattati e nella pratica la disoccupazione è il mezzo subordinato per ottenerla. Al proposito, si veda la questione dell’output gap e dei parametri sul deficit concesso agli stati: uno stato non può spendere di più di quello che i raffinati calcoli leuropei decidono che creerà posti di lavoro inflazionistici. In altre parole, l’UEM decide quale dovrà essere il tasso di disoccupazione dei paesi membri: per esempio, Italia 12%, Grecia 22%... con tanti bei saluti alla libera determinazione della politica e alle promesse elettorali di chicchessia.

 Si riteneva anche che l’inflazione fosse una tassa particolarmente iniqua perché colpiva i ceti più deboli che non avevano alcuna possibilità di eluderla. 

Non si può dubitare che “si ritenesse questo” (lo diceva anche Berlinguer), ma è assolutamente falso che sia così: innanzitutto l’inflazione non colpisce tutti, ma solo coloro che hanno dei capitali o delle rendite fisse, dopodiché non colpisce tutti allo stesso modo, ma colpisce in proporzione alla quantità di capitali o rendite che uno ha: non è un problema equivalente per chi vive di pura rendita o per chi ha qualche risparmio, ma vive di reddito da lavoro (soprattutto se indicizzato all’inflazione, con l’adeguamento automatico attraverso la scala mobile, come era allora e come sarebbe auspicabile sempre, o quasi: non vorrei cadere nel rischio di proporre un sistema troppo rigido nell’altro senso).

L’inflazione trasferisce risorse dai creditori ai debitori.

Esatto, e perché dovremmo considerare un male ciò? Soprattutto considerato che la deflazione, in misura anche piccolissima è deleteria per tutto il ciclo economico? È quantomeno opinabile che il fare dei debiti sia sbagliato in sé, soprattutto in un sistema capitalista, fondato sull’investimento. Per di più, fa sorridere che si voglia premiare (o proteggere) il creditore piuttosto che il debitore: uno non esisterebbe senza l’altro!

All’inizio degli anni ottanta, l’inflazione era al 20 per cento e il debito pubblico era al 60 per cento. La tassa di inflazione, ossia l’ammontare di risorse che l’inflazione trasferiva dai risparmiatori allo Stato, era dunque all’incirca al 12 per cento del Pil…

Qui mi sembra che ci sia un grossolano errore matematico: dimentichiamo quello che lo stato restituisce ai risparmiatori sotto forma di interesse? “Tassa”, semmai, va considerata solo la differenza tra quest’ultimo e l’inflazione: secondo la tabella presentata nell’articolo, lo 0,9% nel 1981, cioè lo 0,54% del PIL… aah!

Una caratteristica ovvia di questa tassa è che è poco trasparente nel senso che non tutti i cittadini hanno sufficienti cognizioni economiche per capire che il rendimento del loro investimento è eroso dall’inflazione, mentre chiunque vede, ad esempio, l’Iva che paga sugli acquisti.

Ma davvero si può credere questo? Quanti prodotti finanziari indicizzati all’inflazione esistono?

senza che mai il Parlamento avesse avuto la possibilità di discutere sull’opportunità di questa particolare forma di tassazione.

Invece, che il Parlamento non abbia la possibilità di discutere della politica monetaria tout court, o che il CDA della BCE non debba rispondere a nessuno delle sue scelte è meglio?

italiani di poter vivere al di sopra delle loro possibilità.

Per chiudere non poteva mancare questo sempiterno luogo comune. Ma cosa vuol dire vivere al di sopra delle proprie possibilità? Fare debiti? E, di grazia, perché non calcolare il debito complessivo in questo “raffinato” ragionamento? Gli USA, negli stessi anni ’80 in cui aumentava vertiginosamente il nostro debito pubblico, videro aumentare (per gli stessi motivi, ma con esiti diversi per una diversa propensione al risparmio di matrice culturale) il debito privato… e allora? Ma sappiamo che questa del debito esclusivamente pubblico è una fissazione dell’osservatorio CPI, già dal nome. Purtroppo, bisogna evidenziare che tutte le riflessioni proposte da questo centro studi, patiscono l’essere condizionate pesantemente da un approccio ideologico estremo: la fissazione che inflazione e debito pubblico siano un male assoluto, anzi, il solo e unico male dell’economia (o quasi).

 

Per questo, io brevemente vorrei spendere qualche parola a loro favore:

l’inflazione, soprattutto se moderata (diciamo meno del 8%), in un’economia fortemente industrializzata, e originata più che altro da una forte domanda (quindi non da scarsità di beni, o da speculazioni sulle materie prime), è

  • Un’imposta equa, perché colpisce tutti in proporzione a ciò che hanno (e per renderla più equa sarebbe bello che si limitasse la libertà di movimento dei capitali, così sarebbe anche ineludibile)
  • Un fattore meritocratico: riduce il peso dei patrimoni ereditati rispetto al valore di quello che si è guadagnato nel presente. Perché qualcuno dovrebbe poter vivere senza lavorare se suo nonno si è arricchito 60 anni fa? Al proposito invito i lettori a scaricare, giocare con e migliorare questo semplice schema Excel che riproduce l’andamento del patrimonio per diverse categorie di persone: un rentier, un imprenditore, un lavoratore. Quando una persona che lavora raggiungerà il benessere materiale di chi è semplicemente nato ricco e vive di rendita?
  • Uno stimolo agli investimenti e una riduzione alla forza del capitale nel conflitto redistributivo: chi ha i soldi è costretto a metterli in moto, a rischiarli, non può permettersi di tenerli fermi.

Ricordo anche che il debito pubblico non è nient’altro che il risparmio privato meno il saldo commerciale estero di un paese: più il popolo risparmia, più lo stato rimette in circolo quei soldi (come in Italia o in Giappone), a meno che non si tratti di un paese esportatore, in cui sono gli stati esteri a immettere nel circuito economico del paese i soldi che vengono a mancare dal settore privato (come in Cina o in Germania). Al riguardo, due precisazioni: 1) essere esportatori non significa essere migliori o virtuosi, per il semplice fatto che non si può esportare tutti e quindi l’esportazione a tutti i costi non può essere un modello sano di sviluppo (vale lo stesso ragionamento del credito vs debito); 2) l’intervento pubblico nell’economia è spesso un buon segno perché il mercato, lasciato a sé, non garantisce la perfetta allocazione delle risorse produttive (come, d’altro canto, non la garantisce nemmeno la pianificazione pura) e tantomeno la loro equa redistriuzione.

 

Dunque… buon quarantesimo del divorzio… e che non ci sia un cinquantesimo!

 

Richi Mazze

 

Riferimenti per approfondire:

 

Goofynomics: La spesa pubblica al bar dello Sport

asimmetrie.org | L’inefficienza di una banca centrale indipendente

SIGNORAGGIO, "DIVORZIO" E DEBITO PUBBLICO: FACCIAMO CHIAREZZA UNA VOLTA PER TUTTE - WORLD AFFAIRS - L'Antidiplomatico

Banca d’Italia-Tesoro: il divorzio più caro della storia d’Italia di Ilaria BIFARINI e PALMA (da LA VERITA') (scenarieconomici.it)

Il “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro (1981) – Fronte Sovranista Italiano (riconquistarelasovranita.it)

Divorzio all'italiana: tesoro e Banca d'Italia - L' Intellettuale Dissidente

1981: il divorzio fra Tesoro e Banca d'Italia - nuovAtlantide.org